Un gioco con le parole. Rita Apollonio
Il linguaggio(verbale)ci serve per comunicare e per definire il mondo che ci circonda. Quando incontriamo per la prima volta una cosa, concreta o astratta che sia, abbiamo bisogno di attribuire ad essa un nome, altrimenti è come se non esistesse. This is a pen!
Se in una lingua corrente non è ancora presente la parola che identifica qualcosa che è già parte della nostra vita, la prendiamo da altre lingue conosciute, così com’è o adeguandola. Pensiamo oggi al mondo della tecnologia, i cui termini non potremmo mai trovare nel latino, nel greco antico ma neppure nell’italiano degli anni ’60.
Nella lingua turca, per esempio, ci sono molte parole mutuate dal francese, che nell’ottocento era la lingua della diplomazia e dei contatti con l’Occidente, un po’ quello che è oggi la lingua inglese; girando per le strade di Istanbul si possono trovare: la Istanbul Gar che è la stazione terminale dell’Orient Express, kuaför per coiffeur, asansör per ascenseur, kapasité per capacité (capienza, sui traghetti), banliyö per banlieu (periferia) ecc.. Da un recente studio pare che queste parole siano almeno 5000.
Senza contare l’influenza dei dialetti e delle espressioni gergali. La lingua italiana parlata correntemente si è diffusa, in tutti i ceti sociali, negli ultimi ottanta anni grazie alla scuola statale e alla leva obbligatoria. Chi non ricorda l’esilarante sketch della cadrega di Aldo, Giovanni e Giacomo!
Alcune parole ci piacciono, altre meno; le parole sono neutre, non sono né buone né cattive, tutto dipende dal contesto nel quale si usano. È il contesto che ci aiuta a capirle. Per esempio se pronunciamo o scriviamo "pera" pensiamo subito al succoso frutto che associamo al cibo: “ho mangiato una pera buonissima”, “ la pera era marcia e ho dovuto buttarla” ecc.; queste frasi le capiscono tutti, anche un bambino; ma se diciamo “mi sono fatto una pera…” il significato è completamente diverso e con un‘accezione negativa, che non tutti sono in grado di comprendere.
Poi ci sono tutte le parole dei linguaggi “tecnici” specifici di vari ambiti, conosciute solo in minima parte dalla maggioranza delle persone di cultura media; pensiamo ai termini giuridici, alla musica, alla storia dell’arte o all’architettura… quanti sanno che cos’è una lesena?
Le mode e gli stili di vita condizionano enormemente l’uso delle parole, condannandone moltissime all’oblio e al disuso, a beneficio di altre più recenti.
La linguistica è una materia molto complessa ed affascinante che mi sarebbe piaciuto studiare.
Fin da piccola, avevo una speciale predilezione per le parole, tanto che ne inventavo molte di sana pianta. Questo succedeva soprattutto all’asilo o in colonia all’ora della siesta pomeridiana, quando era assolutamente proibito fare rumore o muoversi. Non dormivo e allora fantasticavo, pronunciavo a bassa voce le parole che avevo immaginato per valutarne anche il suono. Talvolta, per sentirmi importante, ne sfoggiavo qualcuna con un mio compagno di giochi un po’ più grande. Purtroppo non ho mai pensato di trascriverle.
Crescendo, con l’affermarsi della parte più razionale della mia personalità, ho perduto questa facoltà.
Ma non ho smesso di interessarmi alle parole sconosciute o strane e, tutte le volte che mi imbatto in una di esse, ne ricerco il significato e l’uso adeguato, quante scoperte interessanti! Si trovano parole insolite nelle materie di studio, nel lavoro, ma anche nella vita di tutti i giorni, dalle insegne pubblicitarie ai marchi industriali più importanti, sempre oggetto di curiosità e di severi giudizi da parte mia.
Non dimenticherò nei lontani anni ’80, la prima volta che notai, con un certo sconcerto, l’insegna di un negozio di Milano specializzato in ottica, attivo e molto apprezzato ancor oggi. Il logotipo era composto da una parola inglese e da un‘altra che, ai miei occhi, era una storpiatura dell’italiano; trovavo l’insieme stridente e non corretto (allora il mio inglese era più che buono e mi occupavo di grafica pubblicitaria), ma che, con il senno di poi, ho capito che tale “accrocchio” rendeva più comprensibile il messaggio veicolato, anche per chi non aveva confidenza con le lingue straniere, e che molto probabilmente, ha contribuito a decretare il successo di questa azienda.
Basta tergiversare. Veniamo al punto.
Fino a pochi anni fa non avevo mai sentito parlare di lavenite. È un termine piuttosto recente (non è ancora centenario) ma poco usato perché circoscritto in un certo ambito e nel tempo. Non è neppure presente su Wikipedia.
Alcuni di voi ne conoscono il significato,forse.
Facciamo un gioco. Proviamo ad immaginare di intervistare un certo numero di persone, con una buona cultura generale, chiedendo loro il significato dalla parola in questione. Ecco alcuni esempi di possibili risposte.
Credo che molti potrebbero facilmente pensare ad un contesto geologico: trattasi di una pietra/minerale, forse venuta dallo spazio come un meteorite (o portato dagli Alieni!); un minerale tipico della zona di Laveno o di Lavena Ponte Tresa o di altra località di cui ricorda il nome, oppure il nome potrebbe derivare da quello del suo scopritore M. Lavin?
Sempre in questo contesto, qualcuno potrebbe ancora pensare ad una pietra, di quelle usate in un recente passato dalle lavandaie «la cativa lavandera a treuva mai la bun-a pera».[1]
Un appassionato o un esperto di giardinaggio direbbe che si tratta di una pianta, un tipo di lavanda inglese di piccola taglia - Lavandula angustifolia - chiamata appunto Lavenite Petite.
Rimanendo nel mondo anglosassone, potremmo anche ipotizzare la trascrizione (nostrana) della parola, la cui pronuncia suonerebbe "lavenait", mentre la grafia potrebbe invece essere interpretata come Love Night, cioè notte d’amore... ed essere il titolo di un evento, il nome di un bar o di ristorante alla moda o di un locale notturno. Ce n’è per tutti i gusti. Vi invito a trovare altri significati creativi.
Infine, immaginiamo il dialogo tra due amici che si incontrano in riva al lago:
- Ciao Giorgio come va?
- Insomma…
- Che cosa hai!?
- Eh! La lavenite…
- Hai una faccia, ma dove ti fa male? Hai preso qualcosa…?
E' chiaro che l’amico non sa di cosa si tratta esattamente e ipotizza che la lavenite sia una malattia alla stregua di gastrite, otite, congiuntivite, colite… terribile!
Ma Giorgio, che dispone di notevoli competenze tecniche nel settore ceramico, potrebbe a sua volta rispondere così:
- Ma cosa hai capito Carlo! Il mio bellissimo lavabo vintage in lavenite si è rovinato e non so come ripararlo, è troppo bello e comodo e non vorrei doverlo cambiare!
Il mistero è svelato.
La Lavenite è uno speciale impasto ceramico, utilizzato in esclusiva dalla SCI di Laveno e brevettato proprio con questo nome, per la produzione di sanitari, riconosciuto ed apprezzato in tutto il mondo per le sue doti di lucentezza, resistenza ed impermeabilità. È una variante migliorata della vitreous china = porcellana vetrosa, prodotta negli Stati Uniti già negli anni ’30. Questa miscela era usata per la classica porcellana feldspatica da tavola, composta da caolino, feldspato e quarzo ma l’idea vincente è stata quella di sostituire buona parte del caolino con argilla. La massa rivestita di smalto bianco o colorato veniva trattata in monocottura ad una temperatura costante di 1250°, quindi prodotta con costi minori e dotata di maggior lavorabilità.
La produzione di sanitari in ceramica a Laveno ebbe il suo maggior sviluppo a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso, con la costituzione di un settore dedicato, diretto da Antonia Campi. Fu una vera e propria rivoluzione, basata su forme nuove, attente all’ergonomia e con l’inserimento del colore. Cambia così anche il concetto di bagno, non più una stanza marginale da tenere nascosta ma un ambiente fresco, luminoso, da mostrare e da ammirare.
Da menzionare per la forza innovativa i sanitari Torena (1958), che evocano la superficie a lamelle di un fungo con il lavello dal profilo asimmetrico; la vasca Tinoccia del 1976-1977, che assomma diverse funzioni. Senza dimenticare altri precedenti che hanno fatto la storia, come la serie Adamello del 1937 e il lavabo Cevedale del 1940 progettati da Guido Andloviz. A Laveno va anche il merito, insieme alla Richard-Ginori, di aver dato inizio e fama al design italiano degli apparecchi sanitari da bagno. Nelle sale del MIDeC si possono ammirare alcuni esempi di queste produzioni.
Ma a me piace pensare anche ad un altro significato della parola lavenite: quasi un mal d’Africa, un malessere fatto di nostalgia e bei ricordi, di chi ha vissuto o passato significativi momenti della propria vita nella nostra bella Laveno.
[1] La cattiva lavandaia non trova mai la buona pietra. Citazione in dialetto torinese e chiave del giallo, tratta da “La donna della domenica” di Fruttero e Lucentini e dall’omonimo film di Comencini.
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